LA PIÙ GRANDE VITTORIA è LA PROPRIA SALUTE MENTALE: ABBATTIAMO IL MODELLO ULTRA COMPETITIVO E TOSSICO NELLO SPORT
Articolo a cura di Filippo Simeone.
Lo Sport è sempre stato sinonimo di inclusione sociale, salute e crescita personale o meglio così dovrebbe essere. Forse ciò vale da bambini e da adolescenti, ma quando lo Sport diventa competizione la pressione sociale aumenta e in certi casi esplode. E’ in questi casi che un passatempo può diventare, sì un lavoro, ma anche la propria più grande insicurezza.
L’ultimo episodio è quello di Simone Biles, ginnasta USA 24enne, già campionessa alle Olimpiadi di Rio e papabile vincitrice quest’anno di 6 ori in varie discipline. Giovedì avrebbe dovuto difendere la medaglia d’oro vinta a soli 19 anni, ma si è ritirata in anticipo dalla competizione perché non era nelle condizioni psicologiche e fisiche adatte.
«Queste Olimpiadi sono davvero molto stressanti. Non avere il pubblico alle gare, dover controllare tutto, con così tante variabili. È stata una lunga settimana, è stato un anno lungo, è stata una lunga preparazione: troppe cose da gestire alla fine ti destabilizzano» queste sono state le sue parole in conferenza stampa. La conseguenza di queste pressioni sono stati i cosiddetti “twisties”, cioè una sensazione di mancanza di punti di riferimento nell’eseguire gli esercizi. In sostanza la perdita di orientamento quando si è in aria e quindi la difficoltà nel capire come ci si sta muovendo e su cosa e come si atterrerà.
Ma come nasce questo malessere? O meglio questo infortunio? (perché di infortunio si deve parlare)
Sicuramente il fatto di essere una giovanissima professionista dipinta dalla stampa nazionale e internazionale come l’emblema di un’intera nazione che deve vincere ori su ori per riaffermarsi incide molto; ma la Biles ha avuto anche un’infanzia traumatica. Dalla tossicodipendenza della madre all’affidamento ai nonni fino alle molestie sessuali di Larry Nassar, osteopata della Nazionale statunitense di ginnastica dal 1996 fino al 2017, condannato poi a 175 anni di carcere.
Questi sono i “demoni” che ha detto di avere. Episodi orribili e inaccettabili, che in una vita – ancora troppo giovane – ha dovuto affrontare molte volte da sola.
La scelta di ritirarsi e pensare a sé stessa è stata importante e giusta, perché ha dato prova di grandissima maturità e contemporaneamente ha smascherato un problema enorme nella nostra società, cioè la competizione estrema e la retorica del “se vinci sei forte, se perdi sei un debole”, che hanno portato alla proliferazione di paure, ansie e altri disturbi troppe persone.
E’ ora dire basta a questa narrazione tossica.
Questo vale per lo Sport, ma anche in molti altri contesti sociali, come ad esempio l’università, la scuola e nel lavoro. Perché se è vero che nella vita ci troveremo prima o poi in situazioni di ansia, stress e tristezza, allora bisogna considerare normale i loro casi di ospedalizzazione e parlare apertamente e tranquillamente di malattie psicologiche. Questo è il primo passo per affrontare in modo serio e soprattutto superabile questi problemi. Occorre poi riscrivere la lista delle priorità di ognuno di noi e della società tutta: al primo posto non ci può essere il successo ad ogni costo, ma ci deve essere il nostro benessere a 360°.
Il caso di Simone Biles non è l’unico, anzi in questi anni si è sempre più parlato di depressione e problemi psicologici ad alti livelli sportivi, tutto ciò sta pian piano demolendo il tabù e lo stigma sociale associato.
Perché non era un capriccio di una star del tennis durante il Roland Garros di qualche mese fa, ma era una forma di depressione quella di Naomi Osaka, la numero due al mondo e donna più pagata nel mondo dello Sport. Tant’è che si è ritirata da uno dei tornei più importanti per dedicare del tempo alla propria persona.
Ma se nello Sport in generale vi è questo racconto neoliberista, nel campo degli atleti uomini vi è anche quello della mascolinità tossica che aggrava le condizioni di molti professionisti. Anche qua, però, sta cambiando qualcosa, basti pensare al campione NBA Kevin Love, dei Cleveland Cavs, che ha raccontato degli attacchi di panico di cui ha a lungo sofferto, oppure Michael Phelps, il più grande nuotatore della Storia che ha vinto 28 medaglie di cui 23 oro, che ha confessato in un’intervista alla CNN di soffrire di depressione dal 2012, addirittura arrivando a pensare al suicidio. Identica situazione ha dovuto affrontare il giocatore dell’Atalanta Josip Ilicic, che per alcuni mesi, in accordo con la dirigenza, si è ritirato per tornare in patria insieme alla moglie per problemi psicologici causati dall’emergenza pandemica. Non tutte le dirigenze sportive, molto probabilmente, avrebbero accettato ciò considerando il danno economico che ha portato.
Chissà quanti altri professionisti (e non) si sono trovati in queste situazioni o anche in meno gravi, ma comunque non trascurabili. La salute mentale deve rientrare nel concetto più generale di salute ed è per questo che noi Giovani Democratici Emilia-Romagna riteniamo che occorra l’introduzione di uno psicologo sportivo in ogni team. Occorre aiutare ogni persona a superare le proprie difficoltà del passato, per sentirsi meglio con il proprio Io presente e se si tratta di lavoro per performare al meglio senza paure. Questo strumento potrebbe essere un forte aiuto soprattutto per i giovani atleti che molte volte vedono sprecato il loro talento, ma anche per riconsegnare allo Sport il suo ruolo positivo nell’inclusione sociale e nella crescita personale.
Qua in Emilia-Romagna lo Sport è in ogni provincia e ai massimi livelli. Solo per citarne alcuni basti pensare alla Serie A di calcio che vede il Bologna e il Sassuolo, alle squadre di pallacanestro di Bologna e di Reggio-Emilia, a quelle di pallavolo di Modena, al rugby a Parma, alle scuderie Ferrari e Ducati.
E’ per questa motivazione che crediamo che proprio dal nostro territorio possa emergere una nuova sensibilità che tuteli gli atleti ancora prima come persone andando a tutelare la loro sanità mentale.