IL DRAMMA DI UNO SCONTRO IMPARI

Articolo a cura di Francesco Ria, membro dei Giovani Democratici Bologna.

«Terza Intifada», così gli analisti definiscono i violenti scontri tra israeliani e palestinesi iniziati lo scorso 7 maggio, e ancora in corso, richiamando quelli esplosi nel 1987 e poi ancora nel 2000. Scontri e tensioni che affondano le proprie radici in un territorio ricco di storia e di religiosità, le cui premesse risalgono ancor prima della nascita dello stato di Israele (1948), ai tempi della iniziale colonizzazione sionista a cavallo tra Ottocento e Novecento, e inaspritesi con l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme est nella Guerra dei Sei Giorni del 1967.

Ed è proprio nel quartiere di Sheikh Jarrah (Gerusalemme est) che è scoppiata la protesta per gli sfratti di decine di famiglie palestinesi dalle proprie case. La decisione del governo israeliano ha innescato grandi rivolte nel cuore di Gerusalemme riverberatesi fino alla Striscia di Gaza, enclave in terra palestinese confinante con Israele ed Egitto nei pressi della città di Gaza considerato dalle Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali per i diritti umani e la maggioranza dei governi e dei giuristi ancora occupato da Israele. Situazione, questa, collocata in un contesto di convivenza tra i due popoli già di per sé non pacifico, dato il trattamento discriminatorio spesso riservato alle stesse minoranze palestinesi. Lanci di pietre, bottiglie molotov, bastoni e fuochi d’artificio sulla polizia da parte dei riottosi si alternano alle assordanti granate e agli spari delle forze dell’ordine. Per il Capo di Stato Netanyahu si è trattato della necessità di sedare una violenta rivolta. Per i ribelli l’ennesimo sopruso su di un popolo stanco di essere oppresso. Il tutto atrocemente condito dall’incendio della moschea di al-Aqsa, prestigioso simbolo del culto islamico, da parte dei civili israeliani.

Intanto, giunti al sesto giorno di attacchi aerei israeliani sulla striscia di Gaza, il ministero della sanità controllato da Hamas, l’organizzazione palestinese di carattere politico e paramilitare autodefinitasi “Movimento Islamico di Resistenza”, fa sapere che il numero aggiornato dei morti è di 139 persone, fra cui 39 bambini. Circa mille i feriti stimati.

Per Sami Abu Zuhri, portavoce del movimento, si tratta di «un vero massacro e un crimine di guerra» commesso da Israele: «chiediamo a tutta la nostra nazione di scendere in piazza e scontrarsi con l’occupazione». Parla invece di «una aggressione criminale» l’esponente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Hussein al-Sheikh.  Ma perché Hamas ha lanciato dei missili contro Israele, pur nella certezza che la reazione non sarebbe mancata e sarebbe oltretutto stata durissima? “Il perché dei razzi – ha rivendicato Hamas – è da ricercarsi nell’aggressione alla Città Santa e alle prevaricazioni contro il popolo palestinese”. Una tesi che affonda le radici non solo nella diatriba con i coloni degli ultimi giorni, ma in 72 anni di storia, dal giorno in cui lo Stato di Israele è stato fondato, per dare una terra agli ebrei dopo la seconda guerra mondiale, a discapito però di alcuni territori tradizionalmente abitati dai palestinesi.

Dal canto suo la Giordania accusa Israele di una “palese violazione del diritto internazionale”.           

Reazioni esterne.

Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha twittato: «La violenza di Israele contro persone innocenti nella moschea di Al-Aqsa non finisce. Coloro che non denunciano queste atrocità, non dovrebbero parlare del processo di pace in Medio Oriente».

A Bruxelles si respira aria di preoccupazione, queste le dichiarazioni del “Servizio di azione esterna europea”: «Chiediamo calma immediata, tutti devono evitare di fare ricorso alla violenza. Le forze di sicurezza israeliane devono esercitare la massima moderazione e consentire ai paramedici di entrare per fornire servizi medici ai feriti. Chiediamo a tutti di mantenere e rispettare lo status quo dei luoghi sacri».

Reazioni a caldo anche dall’Italia, dove Matteo Salvini (Lega), Maria Elena Boschi (IV), Tajani (FI), Virginia Raggi (M5s) e Calenda (Azione) affiancano un inaspettato Enrico Letta, attuale segretario dem, sul palco allestito per la manifestazione contro i razzi lanciati da Hamas su Tel Aviv, organizzata dalla comunità ebraica di Roma nel ghetto della Capitale. Sempre più crescenti i dubbi di una parte della sinistra italiana che dimostra serie difficoltà a schierarsi apertamente a favore dei più deboli, degli ultimi, di chi subisce ingiustizie.

A questo punto resta fondamentale chiedersi quale sia il ruolo dell’Occidente in merito alla questione. È necessario, al netto delle consolidate alleanze nello scacchiere geopolitico, non dimostrarsi complici, testimoni inermi del rapporto oppresso-oppressore, e affermare la più totale lontananza da un sistema che discrimina le minoranze e non garantisce la pari dignità di tutti i cittadini.

Quella tanto agognata pari dignità che Daniel Barenboim, pianista e direttore d’orchestra argentino-israeliano, ha reso pura “melodia”, come da lui definita, con la sua WEDO (West Eastern Divan Orchestra). Composta da musicisti classici di varie nazionalità (tra cui israeliani, egiziani, siriani, palestinesi), la WEDO è l’esempio lampante di come sensibilità culturali e religiose radicalmente differenti possano “comunicare”. Ogni musicista deve fare la sua parte suonando il suo strumento, ma allo stesso tempo deve avere un orecchio per l’altro, ascoltandolo e cercando di entrare in armonia con lui, simultaneamente. È lo stesso Barenboim a proporre una sua soluzione alla questione palestinese, per la verità tanto lungimirante quanto utopistica: “sogno confini aperti, due popoli che possano muoversi liberamente come strumenti in armonia tra loro”.